30 luglio 2009, 13.03, Roma Fiumicino. Forse sì, è proprio negli aeroporti che viene voglia infine di fermarsi, voltarsi e tornare a casa. Sono a Roma e non sono invece a Roma. Potrei essere dovunque. Passa un trattore che trasporta un piccolo di cane, un cucciolo legato e sistemato come al circo, spaurito. Così, questi posti. Capita di assistere e di assistersi anche. Consolarsi le mani a vicenda e sospirare a ripetizione come non ci fossero i vetri appannati di freddo. Sarà che hanno tutti l’aria qui, oggi, di tornare verso qualcosa di assimilabile a una casa, al concetto almeno, di mura e focolare. Mi aspettano invece amici e matrimonio. In Sicilia.

«Io vorrei rinascere come la Elisabetta Canalis…», dicono alle mie spalle e forse non del tutto a torto, mi ripetono inconsapevoli. Bell’uomo lui, affermazioni da casa, da grappa bianca e da moglie in cucina a lavare i piatti, il governo in carica. Poter scegliere, farei invece del mio futuro patria, mi farei del percorso vialetto ciottoloso, avrei della mia vita l’estrema gioia, quella di Knut. Tirerei il fiato solo a non essere l’unico.

Ci sono due, poi, che sono vicini. Lui sbadiglia alle spalle di lei, mentre le carezza la spalla sinistra. Lei che sfoglia svogliata una rivista femminile. Con la borsa sulle gambe e i capelli raccolti in un soffio, alto. Forse sono loro. Forse è quello che cerco. La soluzione al dubbio, il sospiro. Forse è davvero così. Qualcuno che guardi le mie spalle, controlli atmosfera e limiti delle acque territoriali. Qualcuno che speri anche per me e sappia cosa fare, cucinare i molluschi e vincere al gioco. E che sappia viaggiare da solo con me verso casa.

Nat chiama e mi dice di un aperitivo di nozze, questa sera a Cefalù. Spero di fare in tempo.

16.01, in volo. Sono quasi in Sicilia, la mia seconda volta, la prima da solo e senz’auto. Si intravede l’isola in fondo alla foschia, appare di corallo nero e di colore amaro. S’intendono i profumi.

16.41, aeroporto “Falcone e Borsellino”, Punta Raisi. Il treno che collega Punta Raisi a Palermo Centrale lo chiamano Metro. A nobilitare non so chi, non si sa cosa, a rimandare immagini forse metropolitane. È in realtà un regionale incatramato come quelli emiliano-romagnoli ma con accento più profondo, da altezze inverse e conche, da costa rocciosa e asfaltata.

Appena fuori dagli Arrivi dell’aerostazione un solerte vigile municipale, su mia solerte richiesta, indica la direzione, le profondità. Un cane dell’antidroga punta due ragazzini sui quali le scommesse in aereo erano state molte e comunque mal pagate. Sulla sinistra si trovano le scale per la nafta, le pietre nere d’ombra e di sputi e i binari fradici di avvisi – non orinate nelle stazioni – dei bagni interregionali.

La biglietteria è degna della quota cui troppi scalini alti ti consegnano. Una stanza, una stanzetta nella quale due giovani ragazzi provvedono a stampare i biglietti da un macchinario automatico con quella che può essere scambiata per solerzia, per dire, ma con l’aria come sempre d’esser stati colti sul fatto. Come quel profumo di calore meccanizzato fosse invece odore di passioni e sudori, di strette e rivolte poi. Allora attendono sospesi come appena svegli la richiesta del viaggiatore, aspettano il destino, sperando sempre non sia una domanda invece, e sospirano. Lui ai bottoni scoloriti, lei al resto minuto.

Due binari con tutta l’aria, malsana, d’esser morti lasciano vedere di slancio alla vista, annusare in fondo la luce, oltre il buio della galleria. Il calore. Mentre li si percorre si sente forte l’aria calda sfiorare le gambe e provare lo sgambetto, i riflessi. La prima carrozza è condizionata d’aria, la seconda anche. Sino alla quarta. L’ultima invece soffre con i sedili bagnati. È quella forse che prima arriva in stazione. Provo a resistere, ma desisto sulla via della salute con un paio di altri tipi ansiosi. Torno alla quarta.

La metro parte in anticipo di tre minuti sulle 17.

Piraineto. Tre passeggeri.

La quarta carrozza ha tutto del refrigerio ma allo stesso tempo ha tutto del refrigeratore. Ogni tre minuti il condizionatore, poggiato pesantemente sul tetto di pece, fa sentire la propria presenza vibrante sull’intera cassa del vagone facendo apparire lo scafandro assolato quale un frigorifero gigante e mal messo.

17.10, Carini. Due passeggeri.

Carini è un’assolata massa di gente che saluta dal primo piano di case basse e tozze.

17.14, Carini – Torre C.. Due passeggeri e tre operai in una cava piena di luce.

Un chilometro a passo lento sino a Capaci, tra passaggi a livello e lapidi.

17.17, Capaci. Un passeggero.

Inutile sosta di cinque minuti. Passa poi un tizio con in tasca delle mentine o dei proiettili inesplosi, poi la polvere invade tutto. Le case e le auto ne sono letteralmente verniciate e le piccole fabbriche abbandonate si stanno con gli anni disintegrando. Non c’è politica che tenga, o ideale in Sicilia. Comanda il tempo qui, bisogna reimparare a leggere l’ora, a dar la carica agli orologi, pulire i quadranti poi.

17.26, Isola delle Femmine. Almeno cinque passeggeri. Alcuni immigrati – certo illegali penso – con le buste ma non della spesa. Ragazzine dai piedi di sabbia, i primi costumi da bagno sotto le vesti e i pantaloncini, gli zaini umidi.

17.32, Tommaso Natale. Nessun passeggero, nemmeno lo stesso Tommaso.

17.37, San Lorenzo Colli. Qui si scende solo.

17.39, Notarbartolo. Molti passeggeri; si inizia a intendere la vocazione metropolitana, da metro.

17.49, Palazzo Orleans. Scendono i marinai in centro. Perdiamo acqua dal condizionatore.

17.51, Vespri. Tre passeggeri, sicuramente poliziotti in borghese.

17.54, Palermo Centrale.

Ho pochi minuti per raggiungere il regionale per Messina, mi lascio trasportare da quelli che hanno fretta. Si muovono convinti verso i binari a destra, il marciapiede in fondo. Intraprendiamo una sorta di gara al rallentatore.

18.02, Regionale per Messina. Affollato. Sempre più. Come un regionale d’estate. Una signora anziana, potrà avere sui settantasei anni, con velleità da diva fuma un piccolo sigaro. Viene insultata. È sulla porta. Il fumo torna tutto dentro, nella carrozza regionale aperta come un open office. «Non sono dentro!!», nega clamorosamente alle lagnanze con tutto il fiato, s’intuisce catarroso, che le rimane in gola. Scura di rabbia e di sole. Risse accennate, parole come spintoni e solo alla fine, ripresa anche da una seconda e poi una terza signora, la fumatrice con cane appresso prorompe in un: «Pure lei ci si mette. Lasciatemi vivere in pace», che sa di epitaffio.

Certo ci sono stato in treni regionali, molti. Diversi. Anche molto più colmi di questo, che ha tutto sommato poche persone in piedi e aria tollerabile, respirabile. Qui però, in questo regionale per Messina è come la gente si faccia sospesa, come sul limitare di una attesa concreta. Come tutti si attendesse sui binari un colpo del destino o degli dei, come la notizia della nostra flotta non giunta a destinazione. Tanto attesi i barbari, diceva Kavafis, che non giunsero. Persa un’occasione.

Tanto intensamente sono attesi qui i barbari che l’urlo di voce e braccia della signora sortiscono l’effetto silenziatore della questione sigaro che svanisce come fumo in poche e appena accennate battute, in alcune malcelate minacce al capotreno, in promesse di vendetta strette tra i denti ormai scuri. Svanisce tutto come a dire che ci sarà presto ben peggio cui far fronte. Ci aspetta ben altro lungo la via, lungo la strada ferrata o meno che sia. C’è da conservare le forze.

Cefalù non l’ho mai nemmeno immaginata. Non so quanto disti da Palermo, credo un’ora. Ascolto così gli altri viaggiatori e mi ci accompagno sino in stazione.

Mi chiama Maria Rita ed è una gioia immensa sapere e sentire che c’è.

Cefalù. Sui binari m’aspetta la gentile titolare del mio alloggio isolano: «Dottore Paolo?» Dopo alcuni minuti d’auto, mentre passiamo alle spalle della Rocca, mi elenca la lista degli psicofarmaci che assume quotidianamente. E dei suoi problemi. Che sono anche i miei.

Lo sapevo, sarà di certo il soggiorno che mi merito. Poter rinascere Canalis.


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Cronaca sicula di uno spostamento ferrato - Racconto di Paolo Colavero, 5.0 out of 5 based on 8 ratings

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