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La Fortuna di sapersi reinventare
Perché hai scritto questo romanzo? È una delle domande che mi sono sentita fare più spesso da quando è uscito “Fortuna, il buco delle vite”.
Perché ho cominciato a scrivere? Credo di aver sempre avuto un ottimo rapporto con le parole, sicuramente più disteso e conciliante rispetto a quello che mi ha legata ai numeri. Infatti, se dovessi vendere una buona quantità di copie del mio primo romanzo, Dio lo voglia, sarei costretta a dare la metà del ricavato ai miei genitori che per tutti gli anni del liceo mi hanno mandata a ripetizione di matematica senza mai ottenere dei grandi risultati. Da studentessa ho sempre detestato la matematica, perché mi faceva pensare a qualcosa di statico e noioso, invece le parole mi hanno continuamente dato l’impressione di generare nuova vita e più vado avanti e più me ne convinco.
Una parola ha la capacità di far ridere, piangere, arrabbiare, sbalordire ma non lascia mai indifferenti. Non so se le parole del mio romanzo abbiano queste caratteristiche, sarà il lettore a deciderlo, quello che voglio fare ora è tentare di raccontare che cosa ha rappresentato per me la scrittura. È stato soprattutto un modo per leccarmi le ferite che mi aveva lasciato una profonda delusione ed è diventata una terapia, la migliore che potessi trovare per uscire da un periodo disastroso. Se penso al momento in cui ho scoperto che mi frullava per la testa mi vengono in mente le parole di un famoso romanzo di Oriana Fallaci: «Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla…». Spero che la grande Oriana mi perdonerà per aver preso a prestito l’incipit del suo “Lettera a un bambino mai nato”, però non mi vengono in mente parole migliori per descrivere il momento in cui Fortuna ha cominciato a prendere forma nei miei pensieri.
Ricordo come se fosse ieri il momento in cui questa donna misteriosa è venuta a cercarmi, per chiedermi di essere raccontata. Quell’estate, era l’agosto del 2007, ero inquieta e facevo fatica a dormire. Sentivo la necessità di una svolta radicale ed è arrivata lei: la persona più detestabile che abbia mai conosciuto. Sì, a volte l’ho detestata perché è nata senza alcuna pretesa dalla mia fervida fantasia e poi ha saputo tenermi legata a sé per 1826 giorni, facendomi dimenticare il resto del mondo. Ogni tanto l’ho rimproverata per avermi tenuta imprigionata alla sua sorte con tanta prepotenza, ora che non mi appartiene più mi accorgo che essere sua schiava mi faceva sentire felice e mi pento di non essere mai stata molto tenera nei suoi confronti.
Le ho regalato tre nomi diversi, tre vite completamente diverse l’una dalle altre e tanti dolori che un cuore un po’ più debole non avrebbe mai sopportato. L’ho fatta nascere con una malformazione alla colonna vertebrale e le ho regalato un nome bruttissimo che nel corso della storia nessuno riesce a pronunciare per intero. J. che nomignolo detestabile! Soltanto sulla bocca di nonna Umberta suona particolarmente dolce. Umberta è una donna formidabile, ha fiuto per gli affari e sa godersi la vita, perciò suscita il disprezzo delle pie donne del paese, ma con la sua fragile nipotina ha finalmente mostrato il suo lato più materno. Quante volte l’arzilla vecchietta mi ha rimproverata, perché pensava che stessi scrivendo una storia troppo triste per J. in modo particolare quando, a un certo punto della storia, ho deciso di farla morire.
Povera ragazza, senza Umberta ha la sensazione di non esistere più, così un lampo di follia scuote la sua mente e la porta a vivere una terribile adolescenza. È una vita maledetta che deve cambiare prima che sia tardi, ormai ha già trent’anni. L’unica soluzione è fuggire via, così prende un treno per Roma, ma la sola cosa che la città riesce a offrirle è un nuovo nome e una seconda vita ancora più disgraziata. Diventa Piccoletta la barbona ed è così umiliante andare in giro per strada e chiedere l’elemosina per mangiare, anche se magari sono giorni che è a digiuno. Per strada Piccoletta conosce l’indifferenza della gente ma anche la disumanità a cui può portare una vita di privazioni: una notte un barbone come lei di cui si fida ciecamente abusa del suo povero corpo. Dopo la violenza Piccoletta tenta il suicidio, ma il destino ha in serbo per lei una terza vita e l’opportunità di capire che il mondo è fatto anche di persone generose come Nadir, un affascinante medico ruandese che la sprona a lasciare la strada.
La donna è stanca di inventarsi nuove vite, fino a quando un terribile incendio fa bruciare il suo rifugio e morire gli amici che hanno condiviso con lei fame e disperazione. Piccoletta trascorre quasi un mese immersa in un sonno riparatore, non vorrebbe più risvegliarsi ma la tenacia di Nadir la obbliga a riapre gli occhi. È difficile ricominciare, dieci anni per strada sono tanti, ma Nadir la sostiene ogni volta che sta per abbandonarsi al pessimismo più esasperato. Così ecco che, passo dopo passo, comincia a sbocciare Fortuna, una donna determinata che non ha niente a che fare con le donne del passato.
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Stampa l'articolo | Questo articolo è stato pubblicato da Jolanda Buccella il 18 maggio 2013 alle 10:00, ed è archiviato come Parole al vento. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso RSS 2.0. Puoi pubblicare un commento o segnalare un trackback dal tuo sito. |
circa 11 anni fa
Ho letto questo romanzo grazie a mia cugina che lo aveva scoperto su internet e me ne sono innamorata dopo appena un paio di pagine. L’autrice ha la rara capacità di coinvolgere il lettore e toccargli l’anima, non mi era mai capitato prima di leggere un’opera prima così ben riuscita. Spero di sentir ancora parlare di Jolanda Buccella e del suo immenso talento.