Parlare della fotografia in genere non è una cosa complicata, perchè i temi di fondo di questa eccezionale forma di comunicazione visiva sono in genere fedeli nel tempo:

la tecnica (innanzitutto!) con i suoi arcani segreti e leggende;

  • il linguaggio, ovvero l’insieme dei “codici” e “messaggi” (come direbbe Jackobson) insiti nell’immagine fotografica, e il suo essere un “canale” di comunicazione;
  • la scelta, da parte di chi sceglie di utilizzare il mezzo fotografico, tra il fare arte o documentazione, con le inevitabili conseguenze che da tale scelta derivano;
  • la necessità di conservare, per il maggior tempo possibile e nelle migliori condizioni, la memoria di ciò che si è verificato davanti all’obiettivo al momento dello scatto e che, tranne rare eccezioni, non si verificherà più.

Questi argomenti ricorrenti da sempre animano il dibattito sulla fotografia e – anche se non amo le eccessive categorizzazioni – in questo caso ritengo utile parlare di questa nobile disciplina, a volte un po’ incompresa, utilizzando la suddivisione sopra citata, che ha il vantaggio di semplificare e rendere accessibili ai più concetti spesso troppo attinenti alla sfera personale per essere trattati in maniera oggettiva.

È necessario fare un’ulteriore premessa di fondo: personalmente non ho mai creduto, a differenza di tanti miei colleghi, che la fotografia sia stata concepita come arte e in seguito si sia “imbastardita”, diventando tutt’al più una forma altamente creativa di artigianato a uso e consumo del mercato. La fotografia, per chi non lo sapesse, è nata a metà dell’800 (precisamente nel 1829) a Parigi in piena Rivoluzione Industriale, in un contesto culturale e storico in cui i progressi della chimica e della fisica, uniti a un reale e fortissimo bisogno da parte dell’intera umanità di disporre di uno strumento in grado di riprodurre la realtà in maniera più fedele della pittura, hanno consentito che avvenisse il “miracolo”, ovvero l’invenzione di un supporto a base di argento in grado di registrare la luce, elemento primo della fotografia e della nostra stessa capacità di percepire la realtà, che passava attraverso un foro stenopeico. Da allora la fotografia ne ha fatta di strada, passando attraverso una continua ricerca finalizzata a realizzare i sogni di Niepce, Daguerre e Talbot, coloro che sono considerati i padri della fotografia: ottenere un’immagine quanto più fedele possibile della realtà, con la più alta qualità e nel minor tempo possibile (se aggiungiamo anche la possibilità di condividerla con altre persone nel più breve tempo possibile e nel più ampio spazio possibile, possiamo dire che il digitale ha realizzato tutti i sogni!).

Detto questo, la fotografia di per sé – nell’opinione di chi scrive – è sicuramente uno strumento efficace di comunicazione, un’espressione di creatività più o meno elevata, ma diventa arte (e come tale deve essere valutata dagli addetti ai lavori) solo e soltanto se chi utilizza la macchina fotografica e la camera oscura – o il computer – lo fa esattamente con lo stesso animo con cui il pittore usa pennello e colori, o lo scultore la pietra e lo scalpello. In tutti gli altri casi il fotografo è o un creativo che è prestato all’industria e al mercato dietro compenso (leggasi “professionista”) o un creativo che intende realizzare e condividere le immagini che scatta per il piacere di farlo (leggasi “amatore”), ma sempre e comunque un creativo è. Nel mezzo c’è una categoria a me molto cara e da me molto invidiata: il “fotoamatore evoluto”, ossia un amatore che possiede competenze e capacità superiori alla media dei suoi simili ma, pur potendo in teoria esercitare la professione, sceglie di non farlo perché ama troppo la “sua” fotografia per cederla ad altri dietro compenso (semmai si accontenta di vederla esibita in una mostra o pubblicata su una rivista di settore).

Da professionista, io ho una forma mentis che mi porta a realizzare immagini che devono avere una finalità pratica, ossia la pubblicazione su un quotidiano o un periodico d’informazione, o ancora la realizzazione di campagne pubblicitarie attraverso cataloghi, affissioni o Web. La scelta dei soggetti “sensibili” (che per me significano “fotogenici” o, almeno, da rendere tali) spesso la fanno dunque altri – un fotoamatore, anche evoluto, non accetterebbe mai questo tipo di compromesso -. Grazie all’esperienza, riesco spesso a scegliere e proporre io i soggetti che preferisco, sempre (attenzione!) tenendo ben presente attraverso quale veicolo di comunicazione quelle immagini saranno diffuse e quali sono i destinatari (o presunti tali). Questo tipo di atteggiamento mi consente di fare – a volte anche contemporaneamente – ritratti, still life (o “nature morte”, che dir si voglia), foto di architettura e reportage, quest’ultima forse è la forma più completa di pratica fotografica oggi esistente. Non amo particolarmente la fotografia cosiddetta “di ricerca” (“artistica”, nel senso stretto del termine) perché, come spiegato sopra, manca spesso il fattore “finalità pratica”. Ma ritengo che sia educativo per ogni fotografo – compreso il sottoscritto – impegnarsi in progetti a lungo termine. Nello specifico io ho scelto il reportage di animali (cani randagi in particolare) che realizzo da anni con gli stesi criteri della scuola americana del reportage sociale, che dagli anni ‘30 del secolo a oggi scorso ha cambiato di fatto il modo di percepire la realtà da parte dell’intera umanità.

Ma facciamo un passo indietro nel tempo. Avendo la fotografia nel Dna (mio padre è sempre stato un grande appassionato di fotografia e, neanche adolescente, mi ha “addestrato” personalmente alla nobile arte della stampa del bianco e nero in camera oscura), ho scelto a un certo punto della mia vita di volerne sapere di più sulla fotografia e ho frequentato a Milano l’Istituto Europeo di Design, forse una delle migliori scuole in Italia per la preparazione professionale di fotografi nei vari ambiti. Durante i quattro anni di corso ho lavorato anche come assistente per vari fotografi di moda e pubblicitari nazionali e internazionali, di passaggio a Milano per realizzare le loro campagne o redazionali per le riviste a diffusione nazionale. Alcuni (come Helmut Newton o Ferdinando Scianna) mi hanno insegnato, oltre a tante nozioni dal punto di vista tecnico, ad amare una professione che per essere svolta quotidianamente necessita di molto più che la passione per la fotografia, che rimane comunque un presupposto irrinunciabile. Altri (come Oliviero Toscani) invece mi hanno quasi convinto ad abbandonare la fotografia solo per il timore di diventare come loro, ma non ci sono riusciti. Se dovessi ricordare un fotografo in particolare con cui ho lavorato e mi insegnato molto direi Toni Thorimbert, fotografo di moda, ritrattista e documentarista, per la sua capacità di gestire professionalmente il lavoro e contemporaneamente l’impegno instancabile teso a voler cogliere il più possibile il lato umano dei soggetti che fotografava, modelle comprese.

Dopo la laurea in Scienze della Comunicazione, ho insegnato fotografia (e continuo a farlo tuttora, sempre con grande piacere e passione) a studenti di scuola superiore, post-diploma e amatori. Se posso dare un consiglio (da docente oltre che professionista) a chi, uomo o donna, intenda avvicinarsi a questa straordinaria esperienza visiva che è la fotografia, suggerisco di acquistare una macchina fotografica compatta di livello medio-alto, che consenta il maggior numero possibile di interventi manuali nelle impostazioni di ripresa, e di scattare tante, tante foto, lasciandosi guidare solo dalla curiosità. Se i risultati sono soddisfacenti e c’è la voglia di fare di più, allora è il caso di passare alla reflex, e continuare a scattare. Se la curiosità è ancora grande e internet o le riviste specializzate non bastano più, allora è il caso di frequentare un corso di fotografia (badate bene: siamo sempre a un livello amatoriale, anche se evoluto). L’utilità di questi corsi non è tanto imparare la tecnica (niente sostituirà mai l’esperienza e quella si fa sul campo) quanto il confronto con i docenti – in genere fotografi esperti – e i colleghi fotoamatori, lo scambio dialettico – fondamentale per qualsiasi pratica di comunicazione – e la verifica collettiva dei risultati. Se poi, oltre a tutto questo, nel cuore e nella testa dell’appassionato di fotografia nascesse il desiderio di fare della propria passione una professione, beh, allora le strade obbligate sono due: la frequenza di corsi pluriennali di formazione professionale di alto spessore (localizzati a Roma, Firenze e soprattutto Milano) e la pratica come assistente fotografo presso uno studio fotografico o una struttura, presente generalmente solo nelle grandi città, in cui si noleggiano sale di posa di grandi dimensioni a fotografi professionisti. Una cosa integra l’altra, ma la strada – è bene chiarirlo – è tutta in salita e richiede anni di sacrifici al pari dell’apprendistato nelle tradizionali libere professioni. A ognuno la sua scelta, dunque.

Per concludere, una breve considerazione sulla fotografia digitale. Per chi come me ha vissuto una fase per molti aspetti intermedia nella storia della tecnologia fotografica contemporanea, caratterizzata dalla compresenza tra “vecchio” (pellicola e carta fotografica) e “nuovo” (autofocus veloce e altri automatismi di fatto del tutto simili a quelli delle macchine attuali), l’avvento del digitale è stato percepito come una vera e propria manna dal cielo, eccezion fatta – sia ben chiaro – per il bianco e nero, per il quale la tecnologia a pixel deve ancora fare progressi per raggiungere la gradazione di grigi dell’accoppiata pellicola – carta b/n. Ma in compenso i vantaggi del digitale rispetto all’analogico sono molteplici: tra tutti, la maggiore economicità nella gestione, la possibilità di vedere subito la foto scattata, di poter archiviare in poco spazio e condividere le immagini attraverso la Rete e, non ultimo, il minore inquinamento dell’ambiente legato a un consumo di materiali di lavoro di gran lunga inferiore rispetto alla pellicola (chimici di sviluppo e fissaggio compresi).

Ma la grande risorsa del digitale è, a mio parere, soprattutto la possibilità per ogni fotografo di potersi gestire autonomamente le proprie immagini in post-produzione attraverso un qualsiasi programma di fotoritocco, che rende di fatto ogni computer una camera oscura. In tal modo ogni amatore o professionista che sia può così tornare a riappropriarsi del proprio lavoro senza che siano altri soggetti estranei (laboratori e stampatori in primis) a metterci mano. Posso garantirvi che in un passato anche recente ogni giorno era una lotta continua per poter avere alla fine risultati all’altezza delle proprie aspettative o di quelle dei clienti che commissionavano le immagini.

Questo “ritorno al futuro” nella gestione dell’immagine fotografica è il migliore pregio del digitale e, forse, rappresenta la sintesi di oltre 170 anni di storia della fotografia, una disciplina nata e crescita grazie ai progressi della scienza e della tecnica unite alla passione dei fotografi di ogni epoca.

Andrea Colella (fotoreporter)

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La fotografia, secondo me (di Andrea Colella), 4.6 out of 5 based on 10 ratings